Per rigging si intende l’insieme di attrezzature necessarie a sostenere l’albero di una barca e a controllare le sue vele.
Conoscerne la teoria e la tecnica, molto spesso considerata come una vera e propria arte marinara, vuol dire conoscere un “tassello di vitale importanza dell’intero mosaico velico”. A sostenerlo è Danilo Fabbroni, il più grande esperto di rigging in Italia, tanto da aver scritto un vero e proprio manuale che tanti velisti hanno nella propria libreria, o sotto il tavolo da carteggio.
Velista, rigger, scrittore e fotografo, Danilo Fabbroni, nato sulle rive di un lago alpino ma cresciuto sul Trasimeno, è soprattutto una delle poche persone che oggi può permettersi di raccontare un pezzo di storia del mondo della vela; quel mondo sportivo difficile da portare sulle prime pagine dei giornali, ma che in realtà è fatto di grandi valori, grandi imprese, grandi uomini e grandi donne.
Grazie alla sua professionalità, Danilo Fabbroni ha vissuto uno dei periodi d’oro per le regate, quando i grandi personaggi che hanno scritto la storia della vela sportiva si potevano incontrare sui pontili dei porti.
Era l’epoca dello IOR, “non l’Istituto delle Opere Vaticane”, citando il titolo di uno dei suoi libri.
Sono stati i tuoi genitori ad importi un corso di vela quando eri piccolo, una passione nata veramente per caso.
Assolutamente vero. Tutto è nato perché avevo raccontato una bugia ai miei genitori; invece di andare alla messa della mattina, giocavo a bigliardino nei giardinetti del mio paesino, Passignano sul Trasimeno. Quando mio padre lo scoprì, come punizione mi portò in un circolo del lago dove facevano corsi di vela gratuiti. A dire il vero, all’inizio mi annoiavo e rimpiangevo le partite di calcio balilla. Poi l’assunzione della droga vela è iniziata alla prima planata. Era il lontano 1970 ed ancora oggi, dopo tante lune, sono ancora infettato da questa passione.
Allora mi viene da chiederti: quale lavoro avresti fatto se non avessi scoperto la vela?
Bella domanda (sorride). Ho studiato all’istituto tecnico per le telecomunicazioni e quindi la mia strada si sarebbe diretta verso aziende tipo l’IBM. Al Circolo Velico del mio paese c’era un prodiere che lavorava alla Sip, oggi Telecom, che mi aveva già dato i moduli per fare domanda.
Come è iniziata invece la tua carriera nel mondo del rigging?
Il rigging è diventata la mia professione dopo aver passato 10 anni come marinaio professionista sulle barche a vela da regata. L’ultimo mio imbarco è stato a bordo di una barca da crociera, visto che avevo già iniziato a fare lavori di impiombature ecc. Il rigging è stata la naturale evoluzione verso quell’attività che avevo la credenza, o la presunzione, di poter fare per diversi armatori. Le manovre correnti e le manovre dormienti di una barca sono per me la cosa più bella che si può fare dopo aver appeso la cerata al chiodo.
Sicuramente lo Strale. Insieme al mio amico Sergio Rustichelli abbiamo fatto tante regate a bordo di questa barca, tra cui campionati europei ed italiani.
Questo perché la vela per me non è mai stata fine a sé stessa. E’ stata soprattutto la possibilità, da uomo di provincia, di vedere tutto un mondo che altrimenti mi sarebbe stato precluso.
Sul lato professionale invece la barca che ho nel cuore è il Pinta di Willi Illbruck, dove fui imbarcato per un anno. Ero l’unico italiano su questa prestigiosa barca tedesca e vincemmo l’Admiral’s Cup, lasciando dietro l’italiana Brava. E’ stata sicuramente un’avventura che mi ha segnato.
Ripensando al periodo di Brava e dell’Admiral’s Cup, oggi Rolex Fastnet, cosa ha rappresentato lo IOR per la vela?
E’ una domanda molto difficile e forse la mia risposta potrà sembrare semplicistica. Oggi abbiamo, facendo un paragone con la boxe, tantissimi titoli e altrettanti campionati e federazioni; il campione nei FARR 40 o nei RC44, ecc. All’epoca c’era un solo regolamento, lo IOR, ad eccezione dei ULDB. Potevi trovarti alle Hawaii, alla Sidney to Hobart, all’Admiral’s Cup o alla Sardinia e si regatava sotto questa stazza. E questo portava un’affluenza alle regate incredibile. Alla prima One Ton Cup in stazza IOR c’erano 30 barche. Era un numero considerevole per quel periodo e per quella tipologia di regata. Oggi ci sono tante barche, ma tutte segmentate in altrettante classi.
Non è facile, ma se devo citare qualcuno, dico Ted Turner. E ti racconto un aneddoto. Ero adolescente e mentre i miei amici collezionavano le figurine di Rivera e compagnia, io sfogliavo le riviste di vela e sognavo le grandi imbarcazioni. Quindi il mio idolo era Ted Turner, grande velista e timoniere che vinse anche una coppa America.
Nel 1983, al rientro dal Fastnet, con il Pinta avevamo ormeggiato proprio a fianco al Locura, la barca che all’epoca era timonata da Ted Turner. E proprio lui, quando ci vide, salì a bordo della nostra barca e strinse la mano a tutti. Capisci, vedere il tuo idolo che ti stringe la mano è la realizzazione di un sogno. Poi in realtà ci sono tante altre persone meno note, che io ho chiamato “Marinai Storici”, ai quali ho cercato di rendere omaggio nel mio libro. Un esempio è Francesco Bugliani, detto Chicco, grandissimo marinaio che ha lavorato per il Professor Bruno Calandriello. Oppure Pinin, il marinaio di Moratti. Per personaggi come loro ho una grandissima stima perché erano in grado di fare tutto, sia a bordo che a terra. Passavano dalla cucina, al timone, ai lavori in cantiere senza nessun problema. Io ho cercato di rubare con gli occhi tutto quello che potevo, perché davanti alla loro esperienza io non ho un centesimo del loro talento.
Torniamo ad oggi. Di cosa ha bisogno la vela italiana per diventare uno sport popolare?
Ti porto solo un esempio: il Moro di Venezia di Gardini durante la Coppa America. In quel periodo nei bar incontravi persone che non avevano mai visto una poppa o una prua e li sentivi parlare di strambate, virate e bompressi. Quando i media coprono pesantemente un evento, la ricaduta sul pubblico è inevitabile. Senza il polverone di una comunicazione su larga scala, uno sport come la vela resterà sempre in secondo piano.
Il pubblico di oggi quindi potrebbe essere più spronato verso lo sport della vela?
Certo. Durante una cena di amici, se qualcuno dice di andare in barca si accende subito l’interesse di chi non c’è mai andato. Questo anche perché la vela ha un ascendente particolare su chi è “ignorante”, nel senso che ignora l’argomento. Poi ovviamente tra il dire e il fare…c’è di mezzo il mare, e ci sono tanti fattori che possono impedire al curioso di provare veramente ad andare in barca. Credo anche che spetti agli addetti ai lavori, come circoli o scuole vela, smitizzare il fatto che per navigare a vela ci voglia un patrimonio spaventoso. E qui i francesi ci insegnano; per divertirsi bastano anche barche normalissime ed accessibili. Ricordo che quando sono stato ad Auckland, in questa baia progettata da un dio velista, c’erano centinaia di persone che navigavano con delle barche che noi ci saremmo vergognati anche solo a tenere ferme all’ormeggio. E’ vero che ci sono le barche grandi che richiedono budget importanti, ma esiste anche la passione “popolare”, quella che per divertirsi basta andare in mare con un 470. E qui ripenso a quando il Daily Mirror, giornale inglese destinato alla classe operaia, nel 1962 lanciò il progetto di una nuova deriva accessibile a tutti, che chiamarono appunto Mirror. Nonostante l’alterigia degli inglesi, e nonostante la bruttezza delle linee dello scafo, il Mirror divenne molto popolare e molto usata. Questo forse è quello che manca a noi italiani: il concetto che la barca ha una vasta gamma di modelli e quindi adatta a tutti. Per fare una bella veleggiata basta veramente poco.
Tu sei un velista, un rigger, uno scrittore ed un fotografo. Facciamo il gioco della torre: quale Danilo Fabbroni butteresti giù?
Sicuramente il velista, per quella parte di questo mondo che fa del velista “quello che se la tira”. C’è stato un periodo, con la mia ditta, in cui avevo pensato di chiudere con il mondo della vela per dedicarmi solo alla fotografia di architettura di interni. Faccio una piccola digressione con una nota comica: a quel tempo mi avevano proposto di aprire uno studio fotografico a Milano e la mia risposta fu che non mi sarei mai trasferito in Lombardia. Oggi vivo a Cantù per il lavoro legato alla vela.
Danilo Fabbroni è una di quelle persone con le quali passeggiare sul pontile, chiacchierando di Tabarly, di Cino Ricci, di Ted Turner, ti fa comprendere quanto la vela ed il mare siano capaci di formare l’anima ed il corpo, e di quanta acqua deve ancora passare sotto la tua chiglia per avere anche un solo briciolo della sua esperienza professionale e di vita.
I libri di Danilo Fabbroni citati nell’articolo sono:
Rigging. Tutto quello che avreste voluto sapere su cavi, cime, winch, bozzelli che compongono l’attrezzatura di una barca a vela. – Ed. Incontri Nautici
La vela (e l’amore) ai tempi dello IOR (non l’Istituto delle Opere Vaticane!) – Youcanprint.it
La vela ai tempi dello Ior: Polifona semiseria di uomini, bestie e barche nel più bel periodo di regate della storia ed altre bazzecole simili. – Ed. Incontri Nautici