Ma i sogni spesso sono più difficili da mantenere a galla che da realizzare e la determinazione diventa l’arma per non perdere di vista la rotta giusta per raggiungerli.
“La Transat o la fai o non la fai” è quindi la conclusione alla quale Domenico è arrivato dopo un anno di lavoro che però non lo ha portato, come sperava, sulla linea di partenza di questa edizione 2019 della regata dedicata alle piccole oceaniche.
Nessuna delusione, ma consapevolezza che per portare a termine un progetto sportivo come questo bisogna saper sbagliare ed imparare dai propri errori.
Perché una campagna Mini Transat non è un capriccio, ma un progetto sportivo che ha tanto di “aziendale”.
Chi è Domenico?
Un giovane ragazzo che durante gli studi all’Istituto Nautico di Porto Torres ha deciso di lanciarsi in una campagna Mini Transat. Una scelta che è partita proprio tra i banchi di scuola.
Allora perché la Mini Transat ed i Mini 6.50?
Perché rispetto ad altre classi, i Mini 6.50 hanno una marcia in più. Partendo dal fatto che all’interno del circuito si possono trovare diverse tipologie di navigatori, da chi vuole arrivare al podio a chi vuole attraversare l’oceano con lo spirito dell’avventura. Poi sui mini si naviga ancora in modo primitivo, dove l’elettronica, ad esempio, non è fondamentale e dove, inoltre, è vietato ogni supporto tecnologico.
Cosa dice la tua famiglia di questa tua scelta?
Nel primo periodo erano preoccupati, ma pensavano che fosse solo una infatuazione passeggera. Con il tempo poi hanno visto che il progetto prendeva forma ed hanno iniziato ad accettarlo. Mio padre ha anche fatto il prologo della Transgascogne, toccando con mano l’ambiente ed il mondo Mini.
Cosa si è disposti a fare per raggiungere un obiettivo impegnativo come una campagna Mini Transat?
Un progetto come questo non è semplice. Sono solitamente anni di lavoro con un primo vero obiettivo che è iscriversi alla Transat e non, come pensano molti, arrivare in Martinica. Ad un progetto del genere è necessario dedicare tempo e risorse, perché anche se le barche hanno una LOA di soli 6,5 metri, richiedono molto lavoro: dalla gestione della barca, alla preparazione fisica fino alla ricerca sponsor. Un progetto sportivo come questo spesso richiede più che altro una buona capacità di organizzare il tempo, che un budget economico a copertura delle spese.
Alla tua età si è tendenzialmente volubili ed i sogni, strada facendo, possono cambiare. Una mattina svegliandoti potresti non voler più fare la traversata oceanica in solitario?
Potrebbe succedere, ovviamente, soprattutto perché è un progetto che va costruito da zero e le difficoltà spesso scoraggiano. Questa mia prima campagna, sperando che ce ne siano tante altre, la considero come un’università, non del mare, ma dove imparerò a gestire un progetto che di sportivo ha solo il momento in cui sei a bordo e molli gli ormeggi, per il resto è come dirigere un’azienda. E’ un’esperienza formativa sul campo, dove gli errori che commetto mi mettono di fronte alle conseguenze e dove successivamente posso aggiustare il tiro.
Questi sono discorsi atipici per un diciannovenne. Ti senti diverso dai tuoi coetanei?
Credo che ogni diciannovenne abbia un suo obiettivo. Il mio è quello di trasformare la mia passione per la vela in un lavoro, facendo quindi qualcosa che mi piace. Siamo tutti diversi, dai diciannove ai cinquanta anni, l’importante è avere un obiettivo.
Hai ragione, ma questa tua visione lungimirante e questa tua determinazione non sono cose comuni nei giovani di oggi.
Mi piace la parola “lungimirante”. Perché credo che sia un’attitudine che non viene trasmessa dal nostro sistema scolastico, dove gli studenti sono indirizzati a vivere alla giornata; prendi il voto oggi, ma non ti spiegano perché questo argomento ti servirà domani. Per questo quando usciamo dalla scuola non sappiamo cosa fare, iscriverci all’università o cercare subito lavoro. La mia generazione non ha la tendenza a guardare al futuro. Non lo fanno neanche le aziende, che non vedono l’opportunità di sostenere giovani atleti pensando che forse un domani potrebbero diventare degli ottimi sportivi. Infatti, spesso mi chiedo da dove provenga questa mia determinazione. Forse dal fatto che ho imparato che bisogna essere lungimiranti.
Domenico, – devo proprio ammetterlo – sei cambiato dallo scorso anno, quando ci incontrammo per il tuo progetto.
Ride. Dopo aver fallito il progetto di essere sulla linea di partenza della Mini Transat 2019, ho un altro approccio verso le cose.
Dico sul serio. Anche il tuo tono di voce è cambiato, sei più sicuro.
Prima ero più un sognatore. Oggi, ho bisogno di mettere delle basi solide al mio progetto.
Torniamo alla nostra intervista. Parlami del tuo mini.
E’ un prototipo un po’ vecchiotto (ITA 335), visto il panorama di quelli di ultima generazione dove siamo sempre più verso barche che non toccano l’acqua. Però è una barca solida, dove ho la possibilità di innovare e di metterci nuove idee, ma soprattutto è una barca Made in Italy, costruita presso Azimut. E’ famosa nel mondo Mini come la barca gialla che ha fatto un match race con Arkema (900) in Oceano, un prototipo di ultima generazione.
Qual è la prima cosa che fai alla mattina appena sveglio?
Programmare la line-up dei lavori e della mia giornata.
Qual è l’ultima cosa che fai prima di andare a dormine?
Controllare il PC, per vedere se sono arrivate delle mail.